APPUNTI PER UNA RECENSIONE CHE COME AL SOLITO NON SCRIVERO’
30° Torino Film Festival (novembre 2012)
“Tabu” – di Miguel Gomes (e forse anche un po’ di “Holy motors”- di Leo Carax)
“… ma sempre quando ero tra le tue braccia il futuro mi sembrava un concetto vago e stupido”, dice Gian Luca Ventura in una lettera alla sua amata. E al di là del loro amore, il film riflette sulle connessioni tra spazio e tempo, tra storia dei popoli e storia individuale, procede con le categorie del sogno, ma non in senso surreale, utilizza le categorie del sogno, portandoci in quella terra che è il cinema migliore, dove non tutto è spiegato, e molto è lasciato alla magia delle connessioni. Volendo, la trama si ricostruisce senza problemi, ma la bellezza sta anche nel filo sottile che lega le due parti del film, presente e passato, fino a che il passato sembra molto più futuro del presente contemporaneo, il gioco si fa serio e il melodramma assorbe i concetti del muto, ma anche di Jules e Jim senza pedanteria o pedissequa citazione, percorre la storia del cinema e dell’uomo come l’esploratore all’inizio del film e se ogni opera d’arte è debitrice alle precedenti, Tabu diventa a sua volta creditore per il cinema dei prossimi anni: cerca di muovere nuovi sentieri, tra sperimentazione e classicità assoluta, tra inquadrature da melò e realismo accecante. Per questo, essendo presente al Torino Film Festival come Holy motors, trovo che i film abbiano molto in comune, pur essendo totalmente opposti. Sono film che osano e non lasciano lo spettatore nel suo brodo abituale di storie rassicuranti, e soprattutto di forme di narrare rassicuranti, subito comprensibili. Sono legati perché parlano di derive, di sentimento del tempo, di vite perdute e uniscono il particolare del singolo uomo all’universalità della storia umana. Carax con Hmotors rifà 2001 Odissea nello spazio e lo ambienta sulla Terra, e non solo per la scena delle scimmie. Un filo sottile che unisce macchine, cibernetica, sentimenti congelati pronti a esplodere, come i corpi ibernati di 2001. L’inquadratura a inizio film (primi minuti) della bambina dall’oblò è forse più Solaris-Tarkovskij, ma in ogni caso torniamo alla domanda primordiale: il cinema è soprattutto alimento di suggestioni immortali, e quell’inquadratura rimane conficcata in chi si trova come spettatore a riceverla, e forse non ce la fa a prenderla tutta, talmente immensa, è l’impotenza stessa che hanno spettatore e protagonista del film, un inutile tentativo di cercare di capire dove stia il simbolo, quando il simbolo è dappertutto e in nessun luogo. Divago, consapevole di divagare, dato che questi sono appunti sparsi non riletti buttati giù per non dimenticare almeno qualche sensazione. La donna ormai vecchia di Tabu, di cui non sappiamo nulla ancora del suo passato, che mostra gli occhi tirando su gli occhiali da sole. La nuova Nouvelle vague può cominciare da lì, da Gomes, da quello sguardo o dall’inizio del film, con le domande fuori campo alla Godard e le risposte che si fanno attendere e non arrivano mai. Ho detto tutto e niente, e spero che in questa confusione, qualcuno vada a vedere entrambi i film, si incazzi per due ore e li detesti, ma poi se li porti comunque dentro, perché a me pare che rimangano lì, e non come abbronzatura stagionale portata via dalla doccia di settembre, ma come immagine nel sangue, nuovo fratello di viaggio, ispirazione o maledizione costante.